Siamo andati a vedere la mostra di Marina Abramovic un
sabato pomeriggio… tempo grigio e nuvoloso, traffico milanese del weekend,
umore a terra per una discussione che ho avuto la mattina stessa con il mio
compagno… una giornata come si suol dire di MERDA!
Ho preso la metro e con un umore tra l’arrabbiato e lo
svogliato e mi sono recato al punto di ritrovo da dove poi saremmo partiti per
raggiungere il PAC. Certo, essendoci i miei compagni e pensando che sarebbe
stato meglio affrontare la mostra a mente lucida e fredda, ho cercato di
farmela passare, di vedere il lato positivo della situazione, di non pensare ai
miei problemi.
Faccio qualche battuta, pago il biglietto, entro e comincio
con mente analitica a vedere la prima parte della mostra (uomini e donne tenuti
al silenzio in diverse posizioni con gli occhi chiusi). Con mente analitica…
sbaglio sempre questo punto… mi capita spesso di affrontare problemi,
materialità e discussioni con la ragione che comunque mi caratterizza e, spesso
di trovare le soluzioni grazie a questa… ma quando si tratta di arte non basta…
Ne ho avuto la conferma molte volte anche se non è facile
aprire il cuore a comando, né accorgersi di usare solo una minima parte della
nostra sensibilità, né di razionalizzare per iscritto cosa poi si ì raggiunto
solo grazie al nostro lato irrazionale.
Questa volta è stata una performance di Marina Abramovich,
che ha fatto scattare in me una molla che ha modificato la mia percezione.
Questo video è quello in cui Marina si trova in piedi in cucina con una
scodella piena di latte in mano.
Le gocce di latte cadono inesorabilmente dalla scodella a
causa dei movimenti anche minimi delle stanche braccia della performer.
Dal punto di vista razionale possiamo analizzare il gioco di
colori vestito nero e latte bianco, stanza chiara contro espressione cupa della
Abramovich… ma oggi non sono qui per scrivere questo… sono qui per dire che in
quel momento, mentre da solo guardavo quella performance ho capito che lei in
realtà sono io… io cerco sempre di tenere in piedi il mio castello di carte, di
fare al meglio tutto, di dedicarmi anima e corpo a tutto quello che faccio…
eppure… il mantenimento è il risultato migliore che posso trovare… le gocce di
latte non torneranno su sfidando la forza di gravità, la ciotola non si
riempirà di nuovo, non ci sarà nessuno che ti dirà “Si, è abbastanza, ora puoi
riposarti”…
L’unico mezzo per superare questo è la resa… non la resa nel
senso di mollare, di lasciar cadere la ciotola ed i nostri sogni (questo mio
messaggio non è per togliere la speranza a quelli che leggono), ma arrendersi
al fatto che siamo probabilmente più forti nel momento in cui comprendiamo la
nostra limitatezza ed imperfezione.. Lì inizia l’arte… nel momento in cui
capiamo di non poter tornare indietro ma allo stesso tempo che l’incazzarsi con
sé stessi, con la persona che amiamo, con i nostri genitori non porta da
nessuna parte se non alla chiusura del nostro sentimento allontanandoci da noi
stessi. La resa non è più un momento di sconforto e di
autoflagellamento per gli errori passati, ma è un fatto di autocoscienza della
nostra natura umana imperfetta ma incredibilmente unica diventando così
l’inizio della ricerca del limite psicologico e di quello fisico (che grazie
alla fatica di tenere in asse la ciotola si fondono… la stanchezza abbassa le
difese della ragione ed in questo modo il cuore diventa protagonista. Esso si
ferisce, sorride, cresce, soffre, gode… in una parola si mostra... Mauro Simone docet!).
Marina Abramovich in quest’opera vuole probabilmente dire
questo. Questo mi ha fatto piangere: il capire quanto l’artista abbia scavato
dentro sé stessa e trovato una realtà che probabilmente è comune (o comunque io
trovo veramente molto) me l’ha fatta sentire vicina… come una amica che ti
scruta dentro, che soffre per sé stessa e per te, che malgrado non possa
risolverti i problemi ti guarda e ti dice “Hei, siamo sulla stessa barca!”
A questo proposito citerei il monologo di Valerie che emerge
nel film V per Vendetta:
Mi chiamo Valerie. Non credo che vivrò ancora a lungo e volevo raccontare a qualcuno la mia vita. Questa è l'unica autobiografia che scriverò e … Dio… mi tocca scriverla sulla carta igienica.
Sono nata a Nottingham nel 1985. Non ricordo molto dei miei primi anni, ma ricordo la pioggia.
Mia nonna aveva una fattoria a Totalbrook e mi diceva sempre che "Dio è nella pioggia".
Superai l'esame di terza media ed entrai al liceo femminile. Fu a scuola che incontrai la mia prima ragazza: si chiamava Sara. Furono i suoi polsi… erano bellissimi. Pensavo che ci saremmo amate per sempre. Ricordo che il nostro insegnante ci disse che era una fase adolescenziale, che sarebbe passata crescendo. Per Sara fu così, per me no.
Nel
Avevo sempre saputo cosa fare nella vita, e nel 2015 recitai nel mio primo film: "Le pianure di sale". Fu il ruolo più importante della mia vita, non per la mia carriera ma perché fu lì che incontrai Ruth. La prima volta che ci baciammo, capii che non avrei mai più voluto baciare altre labbra al di fuori delle sue.
Andammo a vivere insieme in un appartamentino a Londra. Lei coltivava le Scarlett Carson per me nel vaso sulla finestra e la nostra casa profumava sempre di rose. Furono gli anni più belli della mia vita.
Ma la guerra in America divorò quasi tutto e alla fine arrivò a Londra.
A quel punto non ci furono più rose… per nessuno.
Ricordo come cominciò a cambiare il significato delle parole. Parole poco comuni come "fiancheggiatore" e "risanamento" divennero spaventose, mentre cose come "Fuoco Norreno" e "Gli articoli della fedeltà" divennero potenti. Ricordo come "diverso" diventò "pericoloso". Ancora non capisco perché ci odiano così tanto.
Presero Ruth mentre faceva la spesa. Non ho mai pianto tanto in vita mia. Non passò molto tempo prima che venissero a prendere anche me.
Sembra strano che la mia vita debba finire in un posto così orribile, ma per tre anni ho avuto le rose e non ho chiesto scusa a nessuno.
Morirò qui… tutto di me finirà… tutto… tranne quell'ultimo centimetro… un centimetro… è piccolo, ed è fragile, ma è l'unica cosa al mondo che valga la pena di avere.
Non dobbiamo mai perderlo, o svenderlo, non dobbiamo permettere che ce lo rubino… Spero che chiunque tu sia, almeno tu, possa fuggire da questo posto; spero che il mondo cambi e le cose vadano meglio ma quello che spero più di ogni altra cosa è che tu capisca cosa intendo quando dico che anche se non ti conosco, anche se non ti conoscerò mai, anche se non riderò, e non piangerò con te, e non ti bacerò, mai… io ti amo, dal più profondo del cuore… Io ti amo.
– Valerie.
A questo proposito molte altre opere che abbiamo visto si riferiscono all'autocoscenza ed alla resa (Marina distesa sul bagnasciuga che si lascia colpire dalle onde del mare, Marina nuda sotto uno scheletro e molte altre) ma ho descritto la sopraccitata perché è quella che mi ha colpito di più, quella che non mi sarei aspettato, quella in cui mi sono rispecchiato.
L'assenza di ansia, di arrabbiatura, di paura derivanti dalla resa sono la risposta per scavalcare, bruciare e distruggere i nostri limiti!
In conclusione, malgrado il suo metodo sia spesso non
comune, violento, incomprensibile, Marina Abramovich è innegabilmente una
grandissima performer, una ribelle del suo tempo, una perla rara nello scenario
dell’ultimo secolo. Ella ha trovato la strada verso la dimensione interiore,
verso il lato nascosto della mente umana e verso i limiti fisici e psichici ai
quali l’uomo è sottoposto riuscendo anche mediante modi non propriamente
convenzionali a fare arte di una cosa che i più sottovalutano: il proprio
corpo.
bene bene bene! signor Faccin...stiamo raggiungendo livelli più alti conoscenza! mi piace molto la modalità con la quale riesci a fare tue cose apparentemente distanti da te, dall'immagine che fin ora hai dato di te.vere e intense le tue iflessioni...il senso di resa, di abbandono al corpo fa di noi dei performers danzatori per cui fiondati dentro questa crisi e tieniti forte...sarà la tua salvezza!
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